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Federica Napolitano vince il Primo Premio Internazionale “Divinamente Donna” per i Racconti a Tema Inediti con “Insegna il mio nome al vento“
Federica Napolitano, autrice nota per la sua produzione poetica, si misura con la narrativa e lo fa con una padronanza stilistica e una profondità emotiva che la consacrano come una voce intensa e autentica e vince il Primo Premio Internazionale “Divinamente Donna” organizzato dall’Associazione Culturale Internazionale VerbulandiArt che si terrà nei primi di marzo a Roma presso il Palazzo Giustiniani del Senato della Repubblica. Insegna il mio nome al vento è il racconto vincitore del Premio e affonda le radici nel trauma dell’infanzia, esplorando il lutto, la paura e il senso di abbandono con una scrittura che incanta per la sua liricità e precisione.
Una narrazione costruita sul ricordo e sul dolore
Il racconto si apre con una citazione di Roberto Benigni, un invito a diventare l’adulto che avremmo voluto accanto da bambini. È un’anticipazione del cuore pulsante della storia: il confronto tra il passato e il presente, tra il dolore vissuto nell’infanzia e la consapevolezza adulta che cerca di ricucire le ferite.
Il primo ricordo della protagonista è un’immagine potente: il nero, il suono delle urla, il caos di un dolore che non ha ancora un nome. L’infanzia della protagonista è segnata da un’assenza devastante, quella della madre, uccisa dal padre in un’esplosione di violenza cieca. La bambina cresce in un’atmosfera di lutto perenne, in un mondo dove il dolore è tangibile e i simboli della tragedia – il rumore delle scarpe nere, il campanello, i fazzoletti di stoffa – si fissano nella sua memoria come segni indelebili.
Uno stile narrativo evocativo e poetico
La scrittura di Napolitano è densa, ricca di immagini che vibrano di significato. Non è una narrazione lineare, ma un flusso di coscienza che intreccia passato e presente, realtà e sogno. La protagonista racconta il suo dolore attraverso metafore potenti, come quella del panino dei miracoli: una promessa ingenua di speranza che si infrange contro la crudezza della realtà, attesa con la fede di chi cerca un segno di resurrezione, si rivela un’illusione, segnando il momento in cui la bambina smette di credere agli adulti.
L’uso delle sinestesie e delle immagini oniriche è magistrale. Il sogno degli scacchi, con il Re nero che si avvicina per sussurrare “Condoglianze”, è una rappresentazione angosciante della paura e del senso di colpa che la protagonista porta con sé. Il dolore si insinua nel linguaggio stesso, si fa ritmo, si fa suono, si fa colore.
Napolitano scrive con una sensibilità poetica che si riflette nella costruzione delle frasi, nell’uso delle ripetizioni e delle assonanze. Il testo ha un andamento musicale, quasi ipnotico, che cattura il lettore e lo trascina nelle profondità emotive della protagonista.
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Federica Napolitano vince il Primo Premio Internazionale “Divinamente Donna” per i Racconti a Tema Inediti con “Insegna il mio nome al vento”
Il significato della trasformazione e della giustizia
Se la prima parte del racconto è dominata dal dolore, la seconda si apre a una nuova prospettiva: quella della rinascita attraverso la giustizia. La protagonista, ormai adulta, ha scelto di dedicare la propria vita alla legge, indossando la toga come un simbolo di riscatto.
Il finale è straordinario nella sua semplicità simbolica. Il ritorno al panificio, il momento in cui la protagonista chiede una michetta, segnano un passaggio fondamentale: non è più la bambina che aspetta un miracolo, ma una donna che ha imparato a convivere con il dolore senza lasciarsene sopraffare. È un gesto piccolo, quotidiano, ma carico di significato: è la riconciliazione con il passato, il segno che, nonostante tutto, la vita va avanti.
Un racconto di straordinaria intensità emotiva
Insegna il mio nome al vento è molto più di un semplice racconto. È una confessione, un inno alla resilienza, una riflessione sulla memoria e sulla capacità umana di trasformare il dolore in forza.
Federica Napolitano dimostra di essere una narratrice potente, capace di trasportare nella prosa l’intensità della sua esperienza poetica. Il suo stile è raffinato, evocativo, capace di rendere il dolore quasi tangibile, ma senza mai scadere nel patetismo.
Con questa opera, Napolitano conquista meritatamente il Primo Premio “Divinamente Donna”, dimostrando che la sua voce può risuonare con la stessa forza nella narrativa come nella poesia.
francesco nigri
Federica Napolitano vince il Primo Premio Internazionale “Divinamente Donna” per i Racconti a Tema Inediti con “Insegna il mio nome al vento”. Questo il testo del racconto..
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INSEGNA IL MIO NOME AL VENTO
“Cercate la felicità e diventate l’adulto che avreste voluto avere accanto quando eravate bambini” – Roberto Benigni
Il primo ricordo che ho della mia infanzia coinvolge due sensi: l’udito e la vista.
Ciò che mi tormenta tutt’oggi infatti è il colore nero e il rumore disordinato di urla
terrificanti che aleggiavano sulla mia testa come un cirro che porta pioggia. Pezzi di vetro taglienti mescolati malamente e destinati a confluire nel distonico universo in cui, mio malgrado, mi ero ritrovata a vivere.
Ho vissuto per anni imprigionata in una tristezza immobile che godeva di autosufficienza: si generava in autonomia senza che io ne capissi neppure il motivo.
Essendo ancora ben distante dalle interpretazioni proprie della maturità sulla differenza tra tristezza, malinconia, sconforto e angoscia, non provavo neppure a darmi una spiegazione sulle reali cause di quella sensazione maligna che mi attraversava le viscere come una tenia.
Il colore nero è collegato ad una giornata in particolare.
Ora so di avere avuto poco meno di cinque anni all’epoca e il ricordo, scoloritosi negli anni, si è ritinteggiato solo quando, il giorno della vigilia di Natale del 2006, la nonna mi raccontò di quella giornata e di come tutto era precipitato nel buio.
Di quel singolo giorno mi importuna ancora oggi il ticchettio delle scarpe nere, eleganti, delle signore che si avvicinavano al tavolo del salotto per procurarsi una tazzina di caffè.
Non parliamo poi del suono del campanello che ogni dieci minuti circa irrompeva nelle mie orecchie come il fischietto dell’arbitro di una partita di calcio. I presenti parevano avere tutti il raffreddore, perché si soffiavano il naso a tempi alterni, in quegli orribili fazzoletti di stoffa ricamati, retaggio di un tempo in cui l’igiene cedeva il posto all’eleganza.
Con mio grande dispiacere mancava la zia Flora quel giorno, l’unica persona che mi avrebbe potuto forse strappare un sorriso.
Speravo che venisse ma seppi poi che non aveva avuto la forza di esserci.
Cosa significasse avere la forza di venire a casa mia, allora non lo compresi. Pensavo solo che forse se avesse mangiato gli spinaci come Braccio di Ferro, si sarebbe ripresa con il botto e sarebbe venuta subito da me a strizzarmi le guance. Ma non accadde.
Di quel giorno ho in memoria anche il vestitino che la nonna mi fece indossare.
Era un abitino in velluto nero con la gonna a campana dal cui orlo fioriva, come la corolla
di un tulipano, una bordura di tulle bordeaux.
Accadde poi che, quando mio zio Mauro mi si avvicinò accarezzandomi i capelli, mi
spaventai moltissimo poiché alla inconsistenza di quella carezza, aggiunse una parola all’orecchio e che mi gettò, in quanto a me totalmente sconosciuta, nel terrore che si trattasse di un avvertimento: «Conseguenze!» Mi disse, o meglio, questo è ciò che io capii. In realtà mi sussurrò: «Condoglianze».
Grande assente alla inevitabile kermesse di commiato, era mio padre.
Lui, l’inventore, il regista, lo sceneggiatore di quella recita in nero. Senza le sue grottesche sfuriate d’odio, senza il suo lacerante ululato da licantropo offeso che divorava chiunque gli stesse accanto, senza tutta quell’ira mostruosamente ingovernabile noi non saremmo stati lì e lei avrebbe ancora potuto allacciarmi le scarpe prima di andare a scuola e baciarmi sotto l’orecchio come faceva ogni mattina. Mi rimase incollato addosso per anni solo il suo profumo, l’ultima goccia aerea di lei.
Chissà perché non sono mai riuscita ad odiarlo, a disprezzare visceralmente quelle mani che mi lasciarono orfana di entrambi. Detestavo la sua ira, ma non lui. Non riuscii mai neppure a considerarlo morto, perché lui, in fondo, era vivo.
Quando chi uccide tua madre non è un estraneo, tu vivi con la paura costante che il lupo delle favole esista davvero e viva nella tua casa.
E quando provi ad odiare il lupo, avverti come un mescolarsi di paure e sensi di colpa ingravescenti perché il tuo sangue parla in parte la sua stessa lingua, perché nel tuo patrimonio genetico c’è qualcosa che gli appartiene.
Da bambina riuscii ad accusarlo solo della paura che mi attanagliava durante le prime notti dopo l’evento, quando i miei sogni trasformavano la realtà in terrificanti partite a scacchi: sognavo di essere da sola, in piedi, al centro della scacchiera, di fronte alle altre pedine nere. All’improvviso i Pedoni iniziavano a venirmi incontro seguiti dagli Alfieri che indicavano ai Cavalli la strada per raggiungermi. Mi vedevo circondata e mi sentivo impaurita e sfiancata da una stanchezza innaturale. E quando il Re nero mi raggiungeva lasciandomi intuire di essere la Regina, si chinava su di me e invece di baciarmi, mi sussurrava all’orecchio in un ghigno desolante: «Condoglianze».
Nessuno poteva capire il tormento che mi opprimeva. Neppure io compresi fino all’età adulta
la portata del trauma che mi si era infilato sottopelle, nutrito dalla disperazione crescente della mia anima aperta da uno squarcio esistenziale che andava costantemente rafforzando ciò di cui mi sarei davvero alimentata negli anni a venire: la paura dell’abbandono.
Non comprendendo che la mia prospettiva fosse limitata da paure concrete, mi convinsi di non valere poi molto, minando la già fragile autostima con cui sono giunta al punto in cui mi trovo oggi.
Lei mi mancava. Se mi avessero occluso bocca e naso e la necessità di ossigeno fosse diventata vitale, anche a quel punto di fronte ad una scelta, io avrei disdegnato l’aria, pur di poterla riabbracciare ancora.
Uno di quegli uomini vestiti in nero, che al funerale mi prese la manina e mi accarezzò la testa, mi disse una frase che interpretai a modo mio, con la preparazione al lutto che poteva avere una bambina di quasi cinque anni: Giuseppe, il panettiere di via Oberdan, grande amico di mio nonno sin da bambino, mi disse: «Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno piccolina, passa pure in negozio da me. Una michetta burro e marmellata, fa miracoli!»
Torturai la nonna fino allo sfinimento per convincerla a passare una mattina da Giuseppe che mi aveva promesso il panino dei miracoli! E io giusto di quello avevo bisogno! Di un miracolo.
Giungemmo al panificio prima dell’apertura al pubblico ed io mi infilai sotto la saracinesca ancora chiusa per metà.
«Toh! Guarda che bella bambina! Buongiorno Giulia! Vuoi fare colazione?»
La gioia che Giuseppe mi dimostrò vedendomi mi riempì il cuore.
Lui prese una michetta appena sfornata, la aprì e la inondò di burro e marmellata di fragole. Me la porse ed io la accolsi tra le mie manine accostate, come fosse l’ostia al momento dell’offertorio e la misi in bocca come il corpo di Cristo.
Poi attesi il miracolo.
Secondo l’idea che mi ero fatta io, del miracolo, dopo un paio di morsi al panino, mia madre sarebbe dovuta entrare in negozio passando dal retrobottega e mi sarebbe dovuta correre in contro per abbracciarmi e stringermi forte fino quasi a soffocarmi.
Nulla di tutto ciò avvenne. Nessun panino dei miracoli.
Ora ne ero certa, niente e nessuno avrebbe potuto aiutarmi.
Smisi definitivamente di credere agli adulti e promisi a me stessa che in vita mia non avrei mai più mangiato una michetta!
Non persi mai la speranza di sentirla, nel mio letto tra le coperte, nelle onde del mare in primavera, nel sibilo delle foglie frustate dalla Tramontana, nel silenzio universale del paesaggio coperto dalla neve quando solo il tuo respiro è udibile ai sensi e il cuore per qualche istante smette di credersi un fabbro che batte a tamburo e diviene un calmo ruscello di montagna che placa il dolore.
Ma la speranza è un tarlo.
Un maleficio creato dagli uomini per sopravvivere alla sofferenza. È un’illusione cui rendi la stessa dedizione di un genitore. Te ne prendi cura, la fai crescere, ne segui i contorni, la nutri. Ne diventi madre pur essendone figlia.
Come una musica, avvertivo a volte la sua voce nella stessa tonalità di quando mi leggeva i libri prima di addormentarmi e di quando mi insegnava a non avere paura del temporale. Mi diceva che i tuoni erano le chiacchiere che il cielo faceva con la luna e il vento era un guardiano che chiamava i bambini smarriti per ricondurli dalle loro mamme.
«Allora mamma, insegna il mio nome al vento, così se ci perdiamo, ritorno da te» le bisbigliavo fidente.
Ed io ho atteso sempre che il vento sussurrasse il mio nome, persa in una dimensione
volutamente onirica.
Immaginarti più che ricordarti è stata una gran fatica.
Mi era rimasto così poco su cui lavorare, nel tempo anche quelle briciole sono state divorate dai miei ricordi affamati e questo mi ha lasciato sempre un dubbio sul fatto che forse non sei stata tu mancarmi ma il ricordo che avevo di te.
Le fotografie non mi hanno mai confortata, le trovavo menzognere perché riproducevano infedelmente una luce sul tuo volto che io non ho mai conosciuto e davano falsa testimonianza di te, di un sorriso a me ignoto che io non ricordavo.
Mimavo le espressioni del tuo volto fingendo di essere te, ma in nessuna di quelle maschere ti riconoscevo. Non riconoscevo neppure me stessa allo specchio quando rifletteva l’immagine di una ragazzina mutilata nel suo profondo senso di appartenenza ad una stirpe femminile di cui non avrebbe mai incontrato la sua diretta antenata.
Quel nero che sfuma nei miei ricordi di bambina è ancora con me. Oggi però mi rappresenta molto di più di quanto fece allora, oggi in qualche modo mi identifica rendendomi parte di un’evoluzione personale che mi ha ricostruita.
Indosso la toga solo in udienza eppure essa mi pare una sorgente viva da cui mi abbevero quotidianamente per dissetare questa inesauribile voglia di giustizia.
Nelle cose della vita poi è più difficile fare pace con i ricordi eppure anche questo è
possibile.
«Buongiorno Dottoressa, cosa le servo?»
«Buongiorno Giovanni, mi dia un chilo di filoncini di grano duro e una michetta.»
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federicanapolitano©2025
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